Ogni mattina si apre davanti a me un sipario che sembra immutabile, una scenografia già vista, già decifrata, eppure il dubbio si insinua, sottile, come un veleno silenzioso che non chiede permesso. Ci alziamo e ci affidiamo alla certezza apparente di ciò che vediamo, a quella luce che attraversa la stanza, agli oggetti che si posano immobili sul tavolo, alle parole che si intrecciano nell’aria come fili invisibili. Eppure, sotto quella superficie solida, c’è un tremore, un fruscio che non si placa, un moto incessante che fa vacillare ogni certezza. Oggi, come ieri e forse come domani, porto con me l’eco di un film che ha scavato un solco nella mia mente, una visione che non si dissolve, non si esaurisce nel mero intrattenimento. Matrix non è più un semplice film, è diventato una lente deformante, un prisma attraverso cui guardare il mondo con occhi nuovi, ma confusi, affamati. Ogni scena si imprime come un marchio, ogni battuta risuona come un richiamo che non posso ignorare, una sfida che mi spinge oltre il velo sottile della realtà quotidiana. Non è un piacere, né un passatempo: è una dipendenza che mi consuma, un richiamo che mi avvolge in una spirale senza fine. Mi perdo, non nella finzione, ma nell’ombra di un possibile inganno, di un’illusione che si nasconde dietro l’apparenza di ogni cosa. Quell’istante sospeso in cui tutto sembra sfaldarsi, dove il mondo che conosciamo si sfilaccia, e sotto la superficie traspare un’altra trama, invisibile ma palpabile, come un battito assente ma costante. Non è un’idea nuova, né originale, ma è un peso reale, un sentimento concreto che si insinua come una crepa dentro il tempo. La disconnessione è tangibile, si respira, ti stringe nella morsa di un’incertezza che non chiede permesso.
Il film finisce, ma quella domanda resta sospesa, una presenza silenziosa che invade la mente senza chiedere consenso: quante realtà esistono oltre quella che vediamo? È un pensiero semplice, quasi banale nella sua forma, eppure il suo peso è insostenibile, una pietra invisibile che grava sul cuore. Ogni frammento di vita, ogni movimento del corpo o del pensiero, assume la consistenza fragile di un’ombra, una figura evanescente proiettata su uno schermo che non sappiamo dove inizia o finisce. Cos’è vero? Cosa è solo il riflesso distorto di un’illusione? Ho dato il permesso a quell’ombra di esistere, o è lei che si impone su di me, silenziosa e invadente? La luce che filtra dalla finestra è diversa oggi, straniante, una luce che pesa, che taglia come una lama sottile e precisa. La luce di ottobre, calda eppure insopportabile, assume la forma di un errore, di un difetto nel tessuto stesso della realtà, un glitch che si apre come una ferita nei pixel del mondo. Cosa cela quella crepa? Quale verità si nasconde dietro la perfezione apparente di quel raggio? Forse un altro mondo, più vero di questo, forse un universo che rimane nascosto, oltre il velo sottile delle apparenze. L’attrazione verso quell’ignoto mi divora, mi dissolve, mi lascia frammentata davanti a una finestra aperta su un cielo che non offre risposte, che si dilata in una vastità priva di senso. Eppure quel cielo è lì, pesante e distante, come un monito che ricorda quanto poco conosco di me stessa, quanto poco riesco a penetrare. Il pensiero si insinua, violento e inesorabile, un’onda che cresce sempre più forte: tutto è simulazione. Ogni gesto, ogni parola, ogni respiro potrebbe essere calcolato, previsto, scritto da un codice che non posso decifrare. Vivo in una prigione invisibile, uno spazio senza pareti che mi tiene prigioniera, un labirinto senza uscita. Come posso sapere che non è così? Come posso affermare con certezza che questa realtà è reale e non solo un sogno programmato?
Mi sollevo dal torpore di questo pensiero, ma la sensazione resta, radicata come una pianta velenosa che non si estirpa. Guardo ancora quella luce, il suo raggio sembra allungarsi, si insinua come un’ombra minacciosa che si fonde con il cielo, inghiottendolo, trasformandolo in un luogo estraneo. Il codice che plasma tutto, quel segreto nascosto dietro ogni scintilla luminosa, è un mistero che morde la mente e agita il cuore. Perché non ci basta la realtà che vediamo? Perché il nostro desiderio si spinge oltre, verso un mondo che non riusciamo a sfiorare, un altrove che ci tormenta e ci spinge a cercare senza tregua? La mente corre a vuoto, il corpo resta immobile, bloccato tra la voglia di arrendersi e l’istinto di cercare ancora. Forse è la percezione stessa ad essere alterata, un filtro invisibile che distorce ogni immagine e ogni pensiero, o forse siamo noi ad aver dimenticato come guardare davvero, come accogliere il presente con occhi aperti. Sono stanca, più di quanto possa esprimere, stanca di rincorrere risposte che si dissolvono all’istante, che si disfano come sabbia tra le dita. La superficie delle cose si fa sottile, fragile, e ogni dettaglio diventa più evanescente, più sfuggente. La verità non è mai completa, mai piena. Resta sempre una fessura aperta, una ferita in cui si insinua l’incertezza, la domanda che non trova mai la sua risposta definitiva. Mi fermo, perché è lì, in quell’attimo di sospensione, che la scrittura trova il suo senso: non nella soluzione, ma nell’incompiuto, nel respiro trattenuto, nel passo che non si conclude mai. E se la risposta fosse stata davanti a me da sempre, ma io non fossi mai stata pronta a riconoscerla? Forse è così che va, forse la verità è un’illusione che ci spinge a muoverci, a non fermarci mai.
Forse non esiste una verità, eppure la ricerca continua, incessante, come un fuoco che arde e non si spegne. Scrivere è questo: un atto di resistenza, una testimonianza fragile e potente insieme, un movimento perpetuo che attraversa il corpo e la mente, un respiro che si fa parola, che si fa fiume, che scorre senza mai fermarsi. Non c’è fine in questo viaggio, non c’è un punto d’arrivo, solo un eterno movimento che ci spinge a guardare ancora, a sentire ancora, a vivere ancora. La porta si chiude dietro di me con un sospiro leggero, ma resta socchiusa, come un invito silenzioso a continuare, a non abbandonare la ricerca che è la nostra stessa vita, il nostro stesso essere. E così il ciclo ricomincia, il cammino non si arresta, la domanda resta, viva e pulsante, un’ombra luminosa nel buio del nostro esistere.
Remember me,
Eclipse